Assedio di Forlì

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Assedio di Forlì
parte della guerra d'Italia del 1499-1504
Data19 dicembre 1499 - 12 gennaio 1500
LuogoForlì, Italia
EsitoVittoria papale
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
8.000 fanti e cavalieri francesi, tedeschi e svizzeri
2.000 fanti e cavalieri spagnoli e guasconi
1.600 fanti italiani
400 fanti tedeschi, spagnoli e guasconi
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L'assedio di Forlì fu un episodio della Guerra d'Italia del 1499-1504. Visto quanto era accaduto a Imola, dove le porte vennero subito aperte dagli abitanti ai Francesi, Caterina Sforza chiese espressamente al popolo di Forlì se voleva fare altrettanto o se voleva essere difeso e, in questo caso sopportare un assedio. Dato che il popolo tentennava a risponderle, Caterina prese la decisione di concentrare tutti gli sforzi per la difesa nella fortezza di Ravaldino, lasciando la città al suo destino[1].

Storia

Antefatti

Al trono francese era nel frattempo succeduto Luigi XII, il quale vantava diritti sul Ducato di Milano e anche sul Regno di Napoli, rispettivamente come discendente di Valentina Visconti e della dinastia degli Angiò. Luigi XII, prima di iniziare la sua campagna in Italia, si assicurò l'alleanza dei Savoia, della Repubblica di Venezia e di papa Alessandro VI. A capo del suo forte esercito nell'estate del 1499 entrò in Italia occupando senza dover combattere tutto il Piemonte, la città di Genova e quella di Cremona. Il 6 ottobre si insediò a Milano, abbandonata il mese precedente dal duca Ludovico che si era rifugiato nel territori del Tirolo sotto la protezione del nipote Massimiliano I d'Asburgo[2].

Alessandro VI si era alleato con Luigi XII di Francia al fine di avere il suo appoggio nella costituzione di un regno per il figlio Cesare Borgia in Romagna. Con questo scopo emise una bolla pontificia per far decadere le investiture di tutti i feudatari di quelle terre[3], compresa quella di Caterina Sforza alla signoria di Imola e Forlì. In realtà per il re francese la conquista della piccola signoria romagnola era una seccatura che rischiava di rappresentare un'inutile perdita di soldati, tempo e denaro dal momento che il suo vero obiettivo era il Regno di Napoli.[4]

Caterina per contrastare l'esercito francese che stava arrivando, cercò soccorso da Firenze, ma i fiorentini erano minacciati da Alessandro VI che intimava di togliere loro Pisa. Offrì allora la signoria ai veneziani per non doverla cedere al papa e al contempo cercò di ottenere da quest'ultimo un altro dominio di pari valore ma entrambi rifiutarono le sue proposte. Ormai decisa a resistere, iniziò subito ad arruolare e addestrare quanti più soldati poteva e a immagazzinare armi, munizioni e viveri. Fece rinforzare le difese delle sue fortezze con opere importanti, soprattutto quella di Ravaldino dove lei stessa risiedeva e che era già considerata inespugnabile. Fece poi partire i figli che furono accolti a Firenze.

La decisione di Caterina

Il 24 novembre Cesare Borgia arrivò a Imola. Le porte della città vennero subito aperte dagli abitanti ed egli poté prenderne possesso. L'espugnazione della rocca avvenne dopo una valorosa resistenza da parte del castellano Dionigio Naldi che accettò di arrendersi solo dopo che gli furono promesse condizioni onorevoli. Dopo la caduta di Imola tutte le rocche minori del contado si arresero senza opporre resistenza con l'eccezione di quella di Dozza che dovette essere assediata; il castellano Gabriele Pica da Riolo fu imprigionato nella rocca di imola per la sua temerarietà mentre tutti i suoi parenti furono costretti a lavorare insieme ai guastatori. Visto quanto era accaduto nella sua città minore, Caterina chiese espressamente al popolo di Forlì se voleva fare altrettanto o se voleva essere difeso. Il Consiglio dei Quattrocento inviò la risposta ad Alessandro Sforza, fratello di Caterina, per mezzo di cinque cittadini. In essa si citavano gli esempi di Alfonso II di Napoli e di Ludovico il Moro che avevano da poco perso lo stato per mano dei francesi, non si riteneva dunque saggio resistere militarmente a causa delle forze soverchianti dell'avversario e per risparmiare inutili sofferenze ai forlivesi. Caterina, sdegnata per la pusillanimità dei suoi sudditi ma indomita come al solito, mandò il Landriani a rispondergli a suo nome, dandogli dei codardi.[5]

Il 12 dicembre si adunò il Consiglio dei Quaranta dove il Tornielli annunciò che se i forlivesi intendevano resistere sarebbero stati supportati da duemila veterani e da tutti quelli che sarebbero venuti in aiuto in seguito e che non sarebbe scesa a patti col Borgia senza il consenso delle autorità cittadine; se i forlivesi intendevano resistere per poi accordarsi col nemico, Caterina lo avrebbe accettato. Quella sera il Consiglio non prese una decisione. Il 14 dicembre, data l'indecisione dei forlivesi ed essendo decisa a resistere, Caterina risolse di mettere in salvo il figlio ventenne Ottaviano inviandolo in Toscana. Il 17 dicembre giunse a Forlì la notizia che l'esercito del Borgia era ormai vicino alla città e alcuni nobili forlivesi si recarono presso il suo accampamento per offrirgli la città a patto che non la saccheggiasse. Nonostante la resa fosse stata controfirmata dal duca con la promessa che i soldati non avrebbero depredato Forlì, essi "usando immanissima crudeltade et expressa tirannia, posero la città a sacco e non vi fu casa che non fosse spogliata, saccheggiata et vergognata".[6] Il giorno stesso si recò a cavallo a Forlimpopoli dove approvò lo stato delle difese e dei magazzini.[7]

I forlivesi rinunciano alla difesa della città

Il 18 dicembre Caterina tornò da Forlimpopoli a Forlì. Dispose che tutti i ponti della Cittadella e della Rocca di Ravaldino fossero tagliati tranne uno che lo fu a sua volta non appena l'esercito del Borgia entrò in città. Le forze di Caterina consistevano nella sua guardia personale di cavalieri e fanti, di duemila mercenari tra cui vi erano quattrocento tra spagnoli e guasconi e dei volontari reclutati in città, nel contado e nel distretto di Forlì. Come aveva già fatto a Forlimpopoli, anche qui fece distribuire un gran numero di corazze, celate[8] e lance e fece arrestare tutti coloro che sospettava la potessero tradire, tra questi amici e parenti di Achille Tiberti. La rocca era ben fornita di palle di cannone e polvere da sparo nonché di viveri a sufficienza per resistere a un lungo assedio.[9] Fece sequestrare tutti i carri di legname e di paglia che entravano in città attraverso Porta Ravaldino (l'unica rimasta aperta) e li fece portare dentro la rocca insieme ai braccianti che venivano assunti quali guastatori. I duemila difensori stavano stretti all'interno delle mura della rocca e presto scoppiarono disordini e risse tra gli indisciplinati mercenari guasconi e tedeschi che si dovettero per forza ignorare per non far degenerare la situazione. Alla vigilia dell'assedio fu riferito a Caterina che Luffo Numai, nobile forlivese che le era sempre stato fedele e l'aveva aiutata a più riprese, stava congiurando con altri nobili a suo danno. Caterina ordinò di arrestarlo ma il Numai fu avvertito in tempo pertanto quella notte non tornò a casa e si rifugiò presso la guardia cittadina. La notizia del caso si diffuse tra il popolo e il Consiglio decise di fargli tenere un lungo discorso in cui disse che i forlivesi dovevano abbandonare Caterina dato che essa li aveva sciolti dal giuramento di fedeltà quando li aveva lasciati di prendere la decisione che gli pareva migliore, che si doveva rispettare la bolla di Alessandro VI che la dichiarava decaduta dai suoi diritti e privata di ogni autorità nei suoi stati, che resistere contro un esercito di quattordicimila uomini con forze largamente insufficienti avrebbe portato al massacro e che la Forlì sotto lo Stato Pontificio era stata la più prospera. Il discorso convinse quasi tutti i forlivesi che fecero suonare a martello le campane del Palazzo Comunale, affollarono la piazza poi si portarono a Porta Cotogni e alla Porta di San Piero costringendo i castellani ad abbandonarle sostituendoli con uomini fidati e le fecero spalancare mentre non toccarono la Porta Ravaldino e la Porta Schiavonia che erano sotto il tiro dei cannoni della rocca. Forlì aveva fatto dedizione e poco dopo un messo fu inviato per informarne il Borgia. Il Consiglio però, per rispetto della Sforza, deliberò che non fossero toccati i suoi beni in città. Seguì una processione da parte dei monaci dell'Abbazia di San Mercuriale che portarono la statua del santo attorno alla piazza del comune come ringraziamento per aver scampato l'assedio. I nobili Nicolò Tornielli e Ludovico Ercolani riferirono la decisione del Consiglio e del popolo a Caterina che tuttavia era già consapevole degli eventi in corso.[10]

Assedio

Cesare Borgia entra a Forlì

Alle prime luci dell'alba del 19 dicembre il Tornielli e l'Ercolani lasciarono la rocca di Ravaldino dopo essere stati ben accolti. Poco dopo da Ravaldino partirono alcuni colpi di cannone contro la città il cui intento era di far capire al Borgia che se la città si era arresa, la rocca intendeva resistere. Achille Tiberti a differenza dei suoi parenti non era stato imprigionato e aveva fatto venire da Imola quattro squadre di cavalieri con il folle intento di assaltare Ravaldino per cercare di far cambiare idea a Caterina. Quella mattina stessa il Consiglio si radunò per redigere i capitoli della pace ma presto le voci sul suo contenuto si diffusero in tutta la città e nella campagna circostante. I contadini, venuti a sapere che per loro non ci sarebbero state esenzioni fiscali, invasero la città e poi la piazza del comune respingendo la proposta e reclamando un miglior trattamento. Caterina inviò alcune squadre di cavalieri per disperdere la folla ma quando queste si resero conto della moltitudine in piazza tornarono indietro. La furia dei contadini fu placata solo in serata quando Giovanni II Bentivoglio e Luffo Numai riuscirono a calmarli promettendo migliori condizioni. Dopo che si era deciso di inviare la proposta il giorno successivo si apprese che il Borgia sarebbe entrato in città la sera stessa. Alle dieci di sera il Valentino si trovava a Casalaparra presso la dimora di Ludovico Ercolani, dove ricevette alcuni nobili forlivesi inviati dal Consiglio che l'accompagnarono verso la città. Si fermò presso Porta San Pietro dove, temendo una qualche congiura o un qualche attentato, riferì ai consiglieri che per quel giorno né lui né i suoi uomini sarebbero entrati, sebbene alcuni tentarono di penetrare a forza e furono respinti dal Bentivoglio e dal Tiberti. Il capitano della Porta Schiavonia per timore rese la rocchetta e vi fece sistemare i francesi infermi. L'esercito del Borgia prima si diresse verso San Martino in Strada e si accampò sulle basse colline poco più a sud ricevendo viveri dai forlivesi che intendevano rabbonire i soldati quanto più possibile per evitare ritorsioni. Il giorno successivo il Borgia firmò i capitoli proposti dai commissari e ordinò che i contadini ammassassero travi e fascine per l'assedio e che il pane e il vino dovessero mantenere il prezzo corrente per evitare speculazioni. Mentre in San Martino in Strada si trattavano queste cose, Caterina Sforza informata del tradimento del castellano di Schiavonia, diresse il fuoco dei cannoni contro le case di alcuni che intendeva punire e contro la Torre Civica.[11]

Trattative tra Cesare e Caterina

Il 24 dicembre il cardinale Giovanni Borgia, suo cugino e legato pontificio a Bologna, fece visita a Cesare augurandogli buona fortuna per l'assedio. Il giorno di Natale, Caterina fece issare sul mastio di Ravaldino la bandiera con il leone in campo rosso di Bologna che venne scambiato per il Leone di San Marco e generò scompiglio tra i francesi che pensavano che la Repubblica di Venezia avesse abbandonato l'alleanza con il pontefice e si stesse apprestando a inviare aiuti militari. A confortarli ci pensò Meleagro Zampeschi, condottiere e ambasciatore veneziano, che svelò la beffa. Poco dopo riprese il tiro delle artiglierie di Ravaldino ma essendosi rotto un passavolante[12], ordinò a Giorgio Sanseverino (detto "Faccendino"), ufficiale alle artiglierie, di cessare il fuoco. In conseguenza delle cannonate e dell'imminente assedio i forlivesi si agitarono di nuovo dividendosi in due fazioni: i Madama, fedeli a Caterina e gli Ordelaffi che volevano il ritorno di Antonio Maria Ordelaffi che, incorreggibile, da Ravenna aveva ordito un'altra delle sue mille cospirazioni per ritornare in signoria. Il Borgia attese l'arrivo delle bombarde per poter battere la rocca ma il 26 dicembre, irritato per la resistenza e stanco di aspettare, indossò una corazza, mise in testa un cappello nero con piuma bianca, montò su un cavallo bianco e si fece accompagnare da un drappello di cavalleggeri e da trombettieri facendo il giro della città per poi portarsi presso il fossato della rocca. Fece squillare le trombe annunciando di voler parlamentare con Caterina. Il Borgia cercò gentilmente di convincere la Sforza a cedergli la rocca promettendole un buon trattamento e feudi con cui avrebbe potuto mantenere sé stessa e i suoi figli. Caterina rifiutò le proposte accusando il Borgia di essere un bugiardo quanto il papa, gli rammentò il coraggio del padre e del nonno e di voler seguire le loro orme, poi lo salutò. Il Borgia si recò poi una seconda volta dicendole che le sue promesse sarebbero state garantite dai francesi ma Caterina rispose di nuovo sprezzante.[13] Secondo il Vecchiazzani invece Caterina uscì dalla rocca per parlare con il Borgia e dopo aver rifiutato le sue proposte gli chiese di accompagnarla fino al ponte levatoio. Quando il Borgia stava per appoggiarvi il piede, il capitano della fortezza Giovanni da Casale, che si era accordato con Caterina, sollevò il ponte con troppa sollecitudine e vanificò la trappola.[14]

La rocca di Ravaldino si prepara all'assedio

Dopo aver respinto le proposte del Borgia, Caterina incitò i suoi uomini alla difesa poi fece il giro delle mura insieme ad Alessandro Sforza sovrintendendo alla disposizione dell'artiglieria. Il Borgia non rimase ozioso. Fece piantare una prima batteria di bombarde presso la chiesa di San Giovanni Battista in Vico costituita da sette bombarde e dieci falconetti[15]. La bombarda più grande era chiamata la "Tiverina", lunga circa 2,7 m poteva sparare proiettili del diametro di una spanna. Una seconda batteria fu piantata in aperta campagna a sud della rocca. A partire dal 28 dicembre le due batterie iniziarono a battere il cosiddetto Paradiso ovvero il palazzo di Caterina posto accanto alla rocca, difeso da un rivellino si trovava tra il maschio e Porta Ravaldino sopra un terreno lievemente rialzato. I capitani convinsero la signora di Forlì a rifugiarsi nel rivellino a nord della rocca, meno esposto al fuoco dell'artiglieria prendendo il suo posto nel Paradiso. Presto la sommità dei rivellini a sud e a est della rocca vennero distrutte e l'artiglieria messa fuori uso; il Borgia passò poi a colpire la torre che si affacciava sulla strada per San Martino. Bartolomeo da Bologna, abile artigliere inviato a Forlì dal Moro, riuscì però a centrare al primo colpo il suo corrispettivo alla batteria di San Giovanni che pare fosse molto stimato tra l'esercito francese. Il Borgia, che si sentiva sempre insicuro a Forlì malgrado fosse circondato da 14 000 uomini, ordinò a tutti gli abitanti di consegnare le armi presso Porta Schiavonia pena la forca e vietò a chiunque di acquistare beni dai soldati che nel frattempo si dedicavano a derubare le case. Nei giorni successivi i contadini portarono una gran quantità di fascine a sud della rocca, dove il Borgia intendeva aprire la breccia. Il 29 dicembre tacquero sia le batterie del Borgia sia quelle della rocca perché si sparse la voce che Lorenzo il Popolano[16] si stava accordando col Valentino ma già il giorno dopo riprese il bombardamento.[17]

La resistenza solitaria di Caterina venne ammirata in tutta l'Italia.[18] Niccolò Machiavelli[19] stesso riporta che numerosissime furono le canzoni e gli epigrammi composti in suo onore, dei quali ci è giunto solo quello di Marsilio Compagnon. Visto che il tempo passava e non si otteneva nessun risultato, il Valentino cambiò tattica. Iniziò a bombardare le mura della rocca in continuazione, anche di notte[20] fino a che, dopo sei giorni, si aprirono due grossi varchi. Il 12 gennaio del 1500 la battaglia decisiva fu cruenta e veloce e Caterina continuò a resistere combattendo lei stessa con le armi in mano fino a quando venne fatta prigioniera. Tra i gentiluomini catturati insieme con lei, c'era anche il suo segretario, il forlivese Marcantonio Baldraccani. Subito Caterina si dichiarò prigioniera dei francesi, sapendo che vi era una legge in Francia che impediva di tenere come prigionieri di guerra le donne. Il Machiavelli, secondo cui la fortezza era mal costruita e le operazioni di difesa mal dirette da Giovanni da Casale, commentò: «Fece adunque la malaedificata fortezza e la poca prudenza di chi la difendeva vergogna alla magnanima impresa della contessa...».[21]

Conseguenze

Note

  1. ^ La città si arrese a Cesare Borgia nella speranza di evitare il saccheggio d'uso. Ma, nonostante la resa fosse stata controfirmata dal duca con la promessa che i soldati non avrebbero depredato Forlì, essi "usando immanissima crudeltade et expressa tirannia, posero la città a sacco e non vi fu casa che non fosse spogliata, saccheggiata et vergognata". (Graziani Venturelli, p. 259)
  2. ^ Massimiliano I aveva sposato nel 1494 Bianca Maria Sforza, figlia di Galeazzo Maria Sforza e di Bona di Savoia, era nipote quindi di Ludovico il Moro
  3. ^ Faenza, Imola e Forlì, Pesaro, Urbino e Camerino
  4. ^ Pasolini, op. cit., vol. VI, p. 138.
  5. ^ Conigli! Non capite che uno Stato anche rovinato è sempre meglio di uno Stato perduto! Fate voi ciò che volete della città vostra, ma, quanto alla rocca, io son risoluta di mostrare al Borgia che anche una donna è capace di sparare i colpi di artiglieria.
  6. ^ Graziani Venturelli, op. cit., p. 259.
  7. ^ Pasolini, op. cit., vol. VI, pp. 150-156.
  8. ^ elmo in ferro o acciaio che copriva integralmente la testa e il collo, permettendo al contempo di ruotare facilmente il capo; a differenza dell'elmo chiuso possedeva punti d'aggancio autonomi per la barbozza.
  9. ^ Oliva, op. cit., pp. 134-140.
  10. ^ Pasolini, op. cit., vol. VI, pp. 156-163.
  11. ^ Pasolini, op. cit., vol. VI, pp. 165-170.
  12. ^ cannone lungo 18 piedi (5,3 m), tirava palle di piombo con anima in ferro da 16-42 libbre (5,2-13,7 kg)
  13. ^ Pasolini, op. cit., vol. VI, pp. 174-180.
  14. ^ Vecchiazzani, op. cit..
  15. ^ cannone leggero e mobile, versione più piccola del falcone, aveva un calibro di circa 50 mm e sparava palle di ferro da 1-3 libbre (0,3-1 kg)
  16. ^ nato Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, era il fratello di Giovanni il Popolano, terzo marito di Caterina Sforza
  17. ^ Pasolini, op. cit., vol. VI, pp. 174-185.
  18. ^ Brogi, op. cit., p. 200.
  19. ^ Niccolò Machiavelli ebbe diversi incontri con Caterina nel luglio del 1499 in qualità di ambasciatore di Firenze
  20. ^ In contrasto con le usanze di guerra
  21. ^ Brogi, op. cit., p. 222.

Bibliografia

  • Cecilia Brogi, Caterina Sforza, Arezzo, Alberti & C.Editori, 1996.
  • Fabio Oliva, Vita di Caterina Sforza, signora di Forlì, Forlì, 1821.
  • Matteo Vecchiazzani, Historia di Forlimpopoli, Rimini, 1647.
  • Natale Graziani, Caterina Sforza, Cles, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, ISBN 88-04-49129-9.
  • Pier Desiderio Pasolini, Caterina Sforza, Firenze, 1913.

Voci correlate